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Dott.ssa Laura Gallia -  Psicologa e Psicoterapeuta​
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Profilo professionale
​Dottoressa Laura Gallia

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Psicologa e Psicoterapeuta

Laura Gallia​

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Aprile 2020

Che cosa provi... Dietro la mascherina?

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Ormai la mascherina in tempi di Coronavirus è diventata obbligatoria per tutti e probabilmente ci accompagnerà ancora per molto tempo. Chissà che reazioni suscita nelle persone e che emozioni nasconde…

Ricordo il primo impatto che ho avuto con essa. Dopo settimane che non uscivo di casa, mi sono recata al supermercato con il volto coperto e ho provato una sensazione spiacevole, per certi versi ansiogena. Molti ancora non la indossavano ma mi sentivo triste all’idea di non poter vedere i visi di chi come me era lì per fare la spesa o dei dipendenti che conosco da anni e, sì, anche un po’ angosciata nel pensare alla situazione quasi surreale che stiamo vivendo e che ormai da troppo tempo mina la nostra sicurezza, il nostro naturale bisogno di sentirci protetti.

Non credo fosse soltanto per la presenza della mascherina che mi sentivo a disagio, ma forse era la fretta che sentivo, la paura e il sospetto che notavo nelle persone, la velocità e la capacità di fare slalom che molti dimostravano tra le corsie. Era il mio supermercato di fiducia, quello in cui ero solita scambiare con il personale qualche battuta al banco frigo, tra le corsie o alla cassa. Ricordo che quel giorno ho chiesto a ognuno di loro come stava e di averli ringraziati per ciò che stavano facendo per noi tutti. All’uscita la tristezza non è svanita ma ha lasciato spazio a molte domande che nel corso delle settimane con l’introduzione dell’obbligo d’indossare la mascherina e con il progressivo, seppur ancora limitato, approssimarsi alla libertà sono diventate sempre più presenti.

Come sarà ricominciare le sedute con i miei pazienti senza riuscire a scorgere il loro sorriso oppure la loro espressione triste, arrabbiata, dubbiosa? Riuscirò a capire come stanno, considerando che spesso è proprio dal comportamento non verbale che si apprendono molte cose? E se incontrerò qualche conoscente sarò in grado di riconoscerlo? Riusciremo a respirare quando il caldo si farà soffocante? Come faranno i sanitari ogni giorno?

Domande che credo possano essere condivisibili e che mi hanno accompagnata per vari giorni.

Eppure la scena che mi è rimasta più impressa, e che va contro tutti gli studi di psicologia infantile sull’importanza delle espressioni facciali per lo sviluppo psicoaffettivo del bambino, è quella in cui dalla finestra di casa ho iniziato a vedere delle mamme con la mascherina che spingevano carrozzine e passeggini. È stato impossibile per me in quel momento non pensare a quanto sia importante per un neonato il rispecchiamento emotivo, il poter scorgere nel viso delle figure di accudimento le varie espressioni per sapere cosa aspettarsi dalle situazioni e la rassicurazione che ne deriva. Cosa potrà scorgere un neonato nei visi di mamma e papà coperti dalla mascherina? Cosa penserà lui che è totalmente ignaro di ciò che sta accadendo nel mondo?

Tante le domande, i dubbi, le paure che possono riguardare ognuno di noi e che, per questo, credo sia opportuno condividere. In un momento storico in cui abbiamo sperimentato un grande senso di solitudine, in cui il desiderio di relazione, di abbracciarsi, di viversi è diventato parte integrante della quotidianità di molti, ma ci è tuttora negato, come possiamo destreggiarci in questo disagio?

Con questo non intendo andare contro alle attuali disposizioni invitando chi legge a esonerarsi dall’osservanza di tali obblighi perché credo che l’uso della mascherina e il distanziamento sociale siano fondamentali per limitare la diffusione del contagio e per proteggerci, ma mi chiedo cosa potremmo fare per fronteggiare l’asetticità di questo nuovo modo di vivere, per fare nostre delle abitudini che non ci riguardano ma saper tornare alla normalità e a ciò che ci apparteneva quando tutto sarà finito, per comunicare in maniera chiara, per rassicurare e rassicurarci.

Forse sarà necessario reinventarsi, trovare delle nuove modalità di espressione, lasciare che i nostri occhi parlino per noi. Forse dovremmo cercare di verbalizzare di più ciò che proviamo, anche se spesso per qualcuno riconoscere i propri stati emotivi e comunicarli è una delle cose più difficili da fare e ci si lavora molto in terapia…

Magari, se riusciremo ad andare oltre la barriera della mascherina, migliorando la nostra competenza emotiva e la nostra comunicazione verbale, potremo sentirci più compresi e aiutare l’altro a comprenderci.

Laura Gallia 27 aprile 2020

Aprile 2020

#celafaremo... Ma non neghiamo gli stati emotivi negativi

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#andràtuttobene, #iorestoacasa, #celafaremo… Da settimane ormai questi hashtag ci stanno bombardando quotidianamente, imperversano come un mantra, una sorta di monito e al tempo stesso un incoraggiamento, un modo “cool” per dipingere la situazione attuale, per esprimersi in una modalità al passo con i tempi, una sorta di autoconvincimento giornaliero che quello che stiamo vivendo passerà e che, tutto sommato, possiamo ritrovare nella nostra permanenza forzata tra le mura domestiche dei valori dimenticati o trascurati.

Ed è così che il passo successivo, soprattutto in rete, è stato quello di mostrare tutti i frutti del proprio stare a casa, talvolta anche in maniera esagerata o esibizionista. Via allora alle foto di qualsiasi prodotto realizzabile con la farina (dal pane ai dolci ai lavoretti di pasta e sale), ai video che ritraggono persone che cantano, ballano, suonano o fanno cose divertenti. E poi via con la didattica a distanza, lo smart working e chi più ne ha più ne metta.

Questo è ciò che da settimane sta accompagnando la nostra quotidianità ed è importantissimo trovare dei modi per affrontare questa situazione surreale e mantenere il morale alto, ma… Ci siamo davvero chiesti come stiamo, come ci sentiamo in questa nuova vita in cui siamo stati letteralmente catapultati? E i nostri spazi? Riusciamo a ricavarceli?

E le mamme? Quella categoria di persone che spesso attira la mia attenzione e il mio interesse, ma soprattutto il mio sostegno di donna, di psicoterapeuta e di amica nel mio privato. Quei giganti con poteri straordinari multitasking: lavorare, accudire, educare, badare alla casa, giocare, amare… Quei titani che spesso stentano a mostrare il loro lato più fragile, la loro assolutamente comprensibile stanchezza, perché viviamo in un mondo dove il giudizio spesso viene prima della comprensione e sembra inammissibile chiedere aiuto, manifestare la propria stanchezza, a volte crollare…

Cosa succede alle mamme in quarantena? Come si sentono di fronte ai messaggi, agli hashtag/mantra, alle immagini e ai video che tendono a trasmettere soltanto una visione edulcorata dell’essere mamma, dell’essere donna in queste lunghe giornate passate tutti a casa?  

Qualche giorno fa una mamma, una cara amica, mi ha chiesto se avrei potuto scrivere un articolo partendo da ciò che lei stessa aveva scritto rispetto al periodo che sta attraversando. Ed eccomi qui a condividere con voi le parole che con generosità mi ha donato e che (meglio di ciò che avrei potuto scrivere io) esprimono ciò che una mamma può vivere in questo momento, quello che si teme di non poter dire, perché fa paura, perché fa sentire in colpa e inadeguate, quello che invece va detto, condiviso, urlato affinché non si rimanga sole nello sconforto, nella disperazione, ma si trovi invece una mano tesa, quella di un’amica o quella di un professionista che ci aiuti a superare un momento buio che può capitare a tutte… Anche e soprattutto a una brava madre!

 

“Tra il silenzio assordante fuori e le tante domande che ci sono dentro, c'è una gran confusione. Uno scombussolamento che, più passano le ore, e più si fa sentire.

I giorni sono eternamente uguali. Ogni mezzo che solitamente scandisce il tempo è stato risucchiato in questo vortice che continua a girare… A volte pare di stare in un film di quelli apocalittici, quelli che guardavo aggiungendo i miei commenti cinici che adesso non fanno per niente ridere.

Sono spaventata, triste, stanca. La mia famiglia è il carburante che mi fa svegliare, cucinare, lavare, scrivere, scaricare i file dei compiti, accudire. Ma non nego che sto perdendo la luce in fondo al tunnel. Questo velo scuro è arrivato come il virus, così, all'improvviso. Mi ritrovo a sperare che il giorno finisca velocemente per poter spegnere il cervello e scacciare il pensiero sul domani, che sarà uguale a oggi e che diventerà lo stesso ieri che sto collezionando da un mese e più.

Sta logorando questo ritmo anormale che però deve piacerci. Sta diventando un'altra malattia. Silenziosa, infima...

Non so se sono una brava madre in questi giorni di prigione. Non so se riesco a fingere che vada tutto bene.

Mi viene da piangere. Si chiama depressione, credo.

E il momento per averla non è affatto un buon momento.

Non aver voglia di svegliarsi, cucinare, lavare, scrivere, scaricare i file dei compiti, accudire. Non posso ammettere che il carburante non basta. Devo farcela ma non so come riuscire a trovare equilibrio”.

 

Credo che il primo passo per trovare “la luce in fondo al tunnel” sia proprio dare voce ai vissuti più difficili che stiamo attraversando, ascoltarli senza giudicarli perché fanno anche questi parte dell’essere madre, dell’essere donna e tradurli in parole, portandoli fuori di noi. Questo può permetterci di elaborarli, di respirare per ripartire, staccandoci da una perfezione che non può e non deve esistere per riappropriarci invece della dimensione di “madre sufficientemente buona” (per dirla con Winnicott) e non perfetta, che fa del suo meglio per corrispondere ai bisogni dei figli, ma che è umana e, in quanto tale, anche fragile. La depressione spesso è proprio l’esito di una fragilità che non è stata ammessa agli altri, ma soprattutto a noi stessi e che, se non riconosciuta e supportata adeguatamente, può diventare una prigione.

Perché allora non usare nuovi hashtag, nuovi mantra, nuovi propositi?

#nonseisola #chiediaiuto #madresufficientementebuona #sconfiggiamoladepressione  

 

 

Laura Gallia 14 aprile 2020

Marzo 2020

“Che grande forza che ha un padre”

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Oggi, nel giorno della festa del papà, rifletto sulla funzione paterna, sull’essere padre, sull’importanza di trasmettere sicurezza e calore ai figli in un momento storico che, anche se adulti, ci vede spaventati, in cui sentiamo minacciata la nostra incolumità, quella dei nostri cari, quella dei nostri figli. Un momento in cui la nostra libertà ci è stata improvvisamente negata, in cui di fronte alla nostra stessa paura può essere difficile svolgere un ruolo di protezione nei confronti dei nostri bambini.

Naturalmente la situazione che vi propongo mediante uno stralcio di un capolavoro qual è “La vita è bella” riguarda un altro momento storico, drammatico e pieno di orrori, ma credo che alcuni vissuti di allora, sotto un’altra forma, in qualche modo ci riguardino in questa emergenza che è l’epidemia causata dal Coronavirus. Non sappiamo se saremo in grado di proteggere noi e le nostre famiglie, se sapremo trovare una modalità comprensibile per i più piccoli per spiegare questo male e un modo un po’ edulcorato per esprimere ciò che sta succedendo, evitando al contempo che la paura ci paralizzi.

Nel film “La vita è bella” c’è Giosuè, un bambino triste, spaventato, strappato alla sua mamma, che vuole tornare da quest’ultima, che non avrà la sua merenda, che vivrà a contatto con adulti straziati, in condizioni malsane, che potrebbe andare alla morte da un momento all’altro. E poi c’è Guido, un padre, un papà con la P maiuscola, che fa di tutto per proteggere suo figlio dagli orrori dell’Olocausto, per fargli tornare il sorriso, per fargli avere meno paura, che s’inventa un gioco a punti, dove in realtà nessuno ha intenzione di giocare, per far credere a Giosuè che tutto ciò che vedono sia solo un gioco in cui sarà necessario affrontare prove durissime per vincere uno straordinario premio finale: un carro armato vero!

Credo che sia importante, soprattutto con i bambini, non negare le emozioni negative ma trovare un modo di comunicare che sia alla loro portata, soprattutto in un periodo difficile e per certi versi incomprensibile, che è così lontano dalla spensieratezza che dovrebbe caratterizzare l’infanzia. Quella odierna è una realtà che non dovrebbe appartenere a nessuno ma che, a conti fatti, ci ha completamente assorbito e ci sta mettendo alla prova.

Oggi più che mai, allora, cari papà (ma anche care mamme), vi auguro di riuscire a svolgere un ruolo protettivo, di rimettervi in contatto con il vostro bambino interiore, di saper comunicare con i vostri figli nel modo a loro più vicino: il gioco, una fiaba, un disegno fatto insieme...
 

Un padre è qualcuno che ti prende in braccio e ti insegna a ridere. Qualcuno che quando chiudi gli occhi puoi sentire il suo cuore battere nel tuo. Qualcuno che con la sua mano grande come il cielo ti indica la strada. Qualcuno che basta un soffio appena nei polmoni, per toglierti ogni paura. Che grande forza che ha un padre.

(Fabrizio Caramagna, scrittore)

 

Auguri a tutti i papà e buona visione!

 

 

 

Laura Gallia 19 Marzo 2020

Marzo 2020

La psicoterapia ai tempi del Coronavirus

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Informazioni sul Coronavirus, sulle precauzioni igieniche da prendere, sull’importanza di stare a casa se non per comprovate necessità e di evitare assembramenti per impedire che il virus si propaghi in maniera incontrollata nell’ultimo periodo ci sono arrivate sotto ogni forma, da personaggi più o meno noti e più o meno autorevoli che hanno deciso di far sentire la propria voce o, ahimè, di acchiappare like e consensi, spesso creando molta confusione nella popolazione.

Dopo qualche giorno di silenzio sui mezzi che anch’io utilizzo per comunicare (principalmente la mia pagina professionale Facebook e il mio blog), giorni in cui ho cercato di lasciarmi dello spazio per sentire, per formulare delle riflessioni personali, per pensare a come affrontare questa emergenza preservando lo spazio terapeutico, ho pensato di far fluire ciò che ne è scaturito e gli effetti che tale momento storico sta producendo, non solo nella società in generale, ma soprattutto nel setting terapeutico, nella relazione con i miei pazienti e nei nostri reciproci vissuti.

Premetto che sono una stacanovista e che rare sono state le volte in cui non mi sono recata nel mio studio quando avevo degli appuntamenti fissati. Questa volta però fermarsi è un dovere civico ed è fondamentale una scrupolosa osservanza delle restrizioni imposte dall’attuale decreto, evitando sterili e inutili polemiche ma comprendendo la vera importanza dello stare a casa.

In un’ottica un po’ più clinica ho pensato all’importanza di avere/mantenere un esame di realtà, che tuttavia in alcune persone non è conservato e in altre, in alcune occasioni, viene perso.

Mi sono chiesta che messaggio avrei mandato io nel voler a tutti costi continuare quotidianamente a dirigermi nel mio studio in un momento estremo come questo e ho pensato che forse avrei dovuto io per prima attenermi a un esame di realtà, considerando i reali pericoli di contagio, le disposizioni date dall’alto, le oggettive difficoltà di gestione familiare legate a queste restrizioni…

In questi giorni ho quindi discusso telefonicamente con i miei pazienti sulla possibilità di utilizzare delle videochiamate via Skype (strumento da me già utilizzato per motivi di formazione, ma anche per poter proseguire percorsi terapeutici non conclusi in caso di trasferimenti dei pazienti) per rimanere in contatto senza dover cancellare le sedute.

Diverse sono state le loro reazioni. Qualcuno ha accolto bene tale proposta percependo la necessità di una continuità terapeutica e sentendosi maggiormente tutelato sia da un punto di vista della salute che degli spostamenti di cui adesso bisogna rendere conto e che vanno evitati se non strettamente necessari; qualcuno ha preferito rinviare i nostri incontri perché non si sarebbe sentito a proprio agio comunicando attraverso uno schermo o per l’impossibilità di attrezzarsi a livello tecnologico o, ancora, per la mancanza di uno spazio di privacy (effettivamente siamo quasi tutti a casa e potrebbe essere difficile ricavarselo…). Sono comunque rimasta a disposizione di questi ultimi per un eventuale contatto telefonico.

La situazione è senz’altro complicata: anche a me manca un contatto vis a vis senza schermo, ma soprattutto la possibilità di porgere un fazzoletto per asciugare qualche lacrima che inevitabilmente a volte scende. Ho potuto, però, constatare con piacere la forza dei miei pazienti nell’affrontare questo momento difficile utilizzando gli strumenti acquisiti con la terapia, la solidità della relazione che abbiamo costruito e la possibilità di stare comunque in contatto.

Concludo dicendo ai miei pazienti che mi auguro di riaccoglierli presto nel mio studio e a chiunque leggerà queste mie riflessioni che la psicoterapia è un percorso importante che può aiutare a comprendere meglio come affrontare situazioni difficili, mediante il riconoscimento, l’analisi e la gestione dei propri stati emotivi, anche di fronte a qualcosa di sconosciuto e, per certi versi spaventoso, come il Coronavirus.

Laura Gallia 12 Marzo 2020

Gennaio 2020

Quando il suo pianto diventa insopportabile... Non scuoterlo!

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Un recente fatto di cronaca, in cui un bimbo di cinque mesi è morto dopo essere stato scosso violentemente dalla madre perché non smetteva di piangere, mi ha sollecitata a scrivere questo articolo. Dopo qualche giorno di tempesta mediatica e pioggia di commenti in merito all'accaduto non sempre clementi o giudizi “sapienti”, dopo che i riflettori si sono spenti, ho pensato di dare anch’io voce ai miei pensieri e riflessioni in merito, a ciò che mi sembra necessario conoscere sulla “sindrome del bambino scosso” e soprattutto a ciò che sarebbe importante per prevenirla.

Sicuramente è utile sapere che scuotere un neonato è molto pericoloso perché, non avendo ancora sviluppato i muscoli cervicali, il bambino non ha ancora una protezione per il suo cervello il quale, con lo scuotimento, sarebbe libero di sbattere all’interno del cranio con conseguenze molto gravi: ritardi mentali, disturbi del linguaggio, paralisi cerebrali e addirittura la morte.​

 

Ma ne abbiamo davvero sentito tutti parlare? Dopo il recente caso di cronaca sembriamo tutti degli esperti perché la rete pullula di articoli, ma davvero ce ne hanno parlato, ci hanno messi in guardia e, soprattutto, qualcuno ci ha detto come poter evitare che questa sindrome si verifichi? Solo nel 2019 si sono verificati 130 casi in Italia e, probabilmente, il numero è sottostimato perché in realtà la “sindrome del bambino scosso” è difficile da diagnosticare.

Detto ciò, quello che serve davvero a chi si occupa o si occuperà di un bambino, non sono solo informazioni o nozioni ma è necessario fornire anche delle indicazioni pratiche che aiutino a evitare che una persona arrivi a scuotere un bambino e del sostegno a chi intraprende la meravigliosa, quanto faticosa e talvolta estenuante, esperienza di avere un figlio.

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Nei miei interventi all’interno dei corsi di accompagnamento alla nascita ho spesso visto degli occhi sbarrati quando parlavo di questa sindrome, non tanto forse per il dolore di fronte a eventualità di questo tipo ma per lo sgomento che fa pensare: “Quella è pazza! Non merita di avere un bambino”, “A me non potrebbe mai capitare!”... Invece ciò che mi sono ritrovata a condividere con i futuri genitori è che a volte il pianto di un bambino è esasperante e ci fa sentire impotenti perché, soprattutto all’inizio, noi non sappiamo già interpretarlo, capire che cosa il bimbo ci vuole comunicare mentre quello è l’unico strumento che ha a disposizione per dirci moltissime cose. “Ho fame”, “ho sonno”, “voglio le coccole”, “ho mal di pancia”...

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E poi si aggiungono la stanchezza, la deprivazione di sonno che toglie lucidità, il senso d’inadeguatezza che spesso accompagna chi è genitore e fatica a sapere in ogni momento quale sia la cosa più giusta da fare.

Allora ciò che bisogna spiegare è che ci si può sentire esasperati senza essere dei cattivi genitori e che la condivisione è fondamentale. Poi, una volta conosciuti i rischi legati allo scuotimento mediante campagne di sensibilizzazione o con incontri per futuri e neo-genitori, se qualcuno ce ne avrà parlato con toni umani e ci avrà detto che PUÒ succedere, forse ci ricorderemo di quelle parole e cercheremo di prendere le distanze dal pianto del bambino nel momento in cui sentiamo di non farcela più. La cosa migliore sarebbe cercare l’aiuto di qualcuno. Il compagno o la compagna, i nonni, un amico/a, un vicino/a di casa... Qualcuno che in quel momento si prenda cura del nostro bambino e magari ci dia la possibilità di cambiare stanza, di farci una doccia, di uscire un po’. Qualcuno potrà obiettare che non sempre si ha la possibilità di avere un aiuto di questo tipo. È vero. Allora mettete il bambino in sicurezza nel suo lettino o nella carrozzina e prendetevi un po’ di tempo per recuperare lucidità. Una doccia calda, della musica, una boccata d’aria in terrazza potrebbero aiutarvi e il pianto nell’attesa che voi recuperiate non potrà essere fatale al vostro bambino come averlo scosso in un tentativo maldestro di calmarlo o di “fargli capire che deve smetterla”.

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Laura Gallia 7 Gennaio 2020